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Patrizia Mania
Il Göttermilch di Regina Hübner
Chissà se tra i poteri degli dei proprio alla linfa vitale del loro latte debba attribuirsi la magia dell’apparire e del ritrarsi come per effetto di un incantesimo. E’ evidente che qualcosa a che vedere con esso debbano avere se nell’immaginario di tutti si manifestano in presenze dalla consistenza incerta e il loro prendere corpo attenga sempre e comunque alla sfera evocativa avvolta da un velo lattiginoso dietro cui traspaiono. Comunque, senz’altro, e forse proprio in questo senso, qualcosa il latte degli dei deve avere da spartire con questo lavoro di Regina Hübner che si intitola proprio “Gottermilch”, appunto, “Il latte degli dei”, nel quale assistiamo alla messinscena di un’immagine che ha un che di magico ed insieme di fuggente.
Una luce lunare, riflessa, lattea, si fa spazio lungo le pareti della galleria, attraversandola nel perimetro. Indifferente ai pilastri, alle arcate, agli incavi delle pareti, la riveste come in un continuum che non ammette si apra alcuna pausa o interruzione di fluidità del suo percorso. L’ambiente così creato vive svelato proprio da questi fasci di luce.
Una luce, la cui peculiarità è di lasciar intravedere i diversi strati di cui si compone, le trasparenze attraverso le quali si fa sostanza.
A manifestarsi non è però, come tutto lascerebbe pensare, l’architettura su cui questo spessore di luce si distende, ma se stesso, appunto lo spessore della luce e le sue stratificazioni decantati in un processo metonimico.
La parte riservata all’architettura si definisce quindi quella di ospitare l’andamento di queste “pelli” di luce e funzionare da sfondo.
La luce così “sfogliata” e ricomposta scorre sulle pareti dello spazio come se si trovasse all’interno di una sequenza di veli sovrapposti gli uni agli altri. Su di essi si disegna, ma neanche troppo icasticamente, l’icona di qualcosa di riconoscibile, sia essa una mano o un profilo. Meno immediatamente evidente c’è dunque un altro livello di lettura: si tratta delle figure che si delineano nelle sue trasparenze giustapposte e nei chiaroscuri dei suoi passaggi.
Si tratta però di riconoscibilità transitorie, destinate un attimo dopo a svanire o a perdersi, basta che intercettino l’ombra di un visitatore. E’, infatti, sufficiente l’interferenza di una nuova presenza per mutare l’immagine, farla scomparire, trasfigurarla e fare in modo che l’unico parametro percettivo rimanga esclusivamente l’esperienza della luce rivelata nell’ambiente. Una labilità che non abbassa ma accresce il suo forte potenziale evocativo.
Stratificatesi e depositatesi in sedimenti della memoria queste immagini di Regina Hübner sembrerebbero proprio avere la qualità delle immagini eidetiche.
E perché all’esperienza visiva si accompagni un sentimento di vissuto che coinvolga altri sensi un sottofondo musicale viene reiterato di continuo. E’ il canto registrato di un merlo, posto lì, a richiamarci alla percezione quotidiane della natura. Forse è proprio il merlo a riportarci con i piedi sulla terra, a farci sentire il contatto con le cose della natura, della vita, e a consentirci di meglio comprendere queste visioni di Hübner che ne fanno un’inedita interprete dell’immaginario contemporaneo.
Patrizia Mania
1997