RIFLESSIONI DI UN ANALISTA JUNGHIANO SU ANONYMUS DEDICATED TO VALLY DI REGINA HÜBNER

by Dott. Luciano Perez, Roma.

 

Nella lettera inviatami da Regina Hübner alla fine di marzo 2003 per invitarmi gentilmente a partecipare alla presentazione del libro Anonymus dedicated to Vally, due frasi mi hanno particolarmente colpito. La prima è quella in cui l’artista afferma che la riflessione sottesa al tema dominante del suo progetto è “che cosa continua ad esistere di un’idea, una volta che il suo autore si sia separato da essa”. La seconda riguarda “l’individuo che decide di separarsi dalla propria opera e allo stesso tempo deve accettare che l’opera si separi da lui. Questa condizione apparentemente innaturale ma al tempo stesso profondamente umana – e per questo così drammatica – si sintetizza nel titolo: L’autore si separa dalla sua opera”.

Sono due interrogativi, al di là - o al di qua – dell’opera in sé, che possono suscitare, o almeno lo hanno fatto in me, delle riflessioni che spero non troppo banali.

L’occasione, se posso chiamarla così, di quest’opera visiva è stata, per quanto ho potuto capire, un lutto, la perdita di un’amica. Chiunque abbia subito la perdita di una persona cara, e soprattutto di un amico – vale a dire di qualcuno di “scelto” e non di “dato”, come un familiare – può forse com-prendere, in una sorta di anamnesi dolorosa, il terribile vissuto di una situazione del genere. Qui, però, si tratta di un vissuto o di un’esperienza-chiave – Schlüsselerlebnis – di un’artista.

L’esperienza della perdita di un amico rappresenta in primo luogo, credo per chiunque, una perdita di una parte di sé – oserei dire del Sé – che porta a un’improvvisa, anche se la morte era prevedibile o addirittura prevista, relativizzazione dell’io. Se, come credo, un exit è sempre e comunque un exit nello spettacolo della vita, anche se un certo copione è già scritto e lo si conosce in anticipo, l’io ne rimane, al momento cruciale, senza parole, inebetito; manca, d’improvviso, qualsiasi capacità d’espressione vera, che non sia – in un certo qual modo – rituale o ritualizzata: quell’exit è anche, che lo si voglia o no, un exit dell’io.

Se l’io esce di scena lascia il campo a qualcos’altro, qualcosa di impersonale, qualcosa che è non-io. Nel caso, come questo, di un’artista, può nascere un’idea, un’idea che, pur collegata alla situazione, non è la mia idea, ma qualcosa che giunge a me e che pretende la propria espressione. L’io, secondo la bella immagine della mistica islamica, si fa calamo, ma è qualcun altro che scrive, o che crea. E’ allora giusto e fatale che l’idea si separi dall’artista: l’idea ha una propria vis, una vis che non è dell’io. Ciò mi sembra particolarmente vero nel caso, appunto, dell’artista, un individuo, cioè, particolarmente vicino e permeabile a quell’incredibile – per l’io che se ne difende finché può – fucina e forgia di idee che è l’inconscio, il non-io par excellence.

Mi viene in mente come, per un modo di pensare forse deformato professionalmente, ogni acquisizione dell’io venga sempre considerata una conquista e come, al contrario, una resistenza venga sempre interpretata, in un certo senso, negativamente, senza pensare alla possibile sofferenza del non-io rispetto a quella che per esso è una perdita. Qui i termini si rovesciano, come spesso succede nella pratica clinica: è il non-io che urge per manifestarsi e l’io, che rinuncia estremamente malvolentieri all’idea di sentirsi padrone a casa propria, soffre a che quell’idea esista, abbia una vita al di fuori di lui, una vita spontanea e autonoma che esige di vivere nel mondo, indipendentemente. E’ fin troppo facile pensare alla coppia di opposti formata da un materno negativo, che trattiene dentro di sé la sua creatura, finendo per soffocarla, e da un materno positivo che la propria creatura la mette “al mondo”.

Esiste un rituale indiano, splendidamente raccontato da Heinrich Zimmer, della “rinuncia al frutto” da parte della madre. E’ un rituale che si svolge negli anni: la madre comincia a rinunciare a piccole cose, frutti o chicche di cui è particolarmente golosa, per poi via via rinunciare ai suoi ornamenti più preziosi, alle vesti e ai gioielli, per arrivare infine a consegnare, al “mondo” appunto, la cosa più preziosa, il “frutto” par excellence, il figlio. E’ però un rituale che ha a che fare con qualcosa di prevedibile, nell’“ordine naturale delle cose”, qualcosa di legato alla vita. Forse è così che l’artista deve “separarsi dalla propria opera” e, nel caso specifico, testimoniare così per la vita e non testimoniare, rendendosene complice, per la morte. Le sue opere devono essere consegnate al mondo: in un certo senso è proprio il dolore della separazione a dar loro una vita vera.

“Nel mondo e per il mondo”, se mi è permessa una sorta di motto da fruitore dell’opera artistica. Mi ricordo che un grande artista, connazionale di Regina Hübner, Hundertwasser, chiedeva semplicemente di sapere dove, nel mondo, fossero le sue opere: “Hundertwasser estime que ses oeuvres font partie de lui-même. Il demande donc à être informé où se trouve un tableau”; anche se fanno parte dell’artista, le sue opere hanno dunque il diritto e il dovere di stare nel mondo: la separazione e l’abbandono, per rispondere al primo interrogativo, sono in questo caso la condizione, sine qua non, perché l’opera “continui ad esistere”.

 

 

 

Luciano Perez, Roma, 5 aprile 2003.